Guardare indietro al 22 febbraio 2022, può fare male. Ritornano alla mente quei luoghi così vicini ma ormai distanti. A quella che una volta era la propria casa. A quando quella famiglia ucraina si trovava a Kherson, con la nonna che preparava la cena assieme alla nipotina curiosa di conoscere la ricetta di un piatto tipico. Oppure a quando quella coppia di Zaporizhzhia stava programmando il viaggio di nozze. Tutto questo è stato spazzato via da un conflitto che ha distrutto città, legami, vite. In questi tre anni le difficoltà per queste famiglie sono state molte: la fuga veloce, l’arrivo in un Paese straniero, il dolore di perdere la propria casa. E solo la grande solidarietà messa in campo ha permesso loro di non perdere la speranza di un futuro migliore.
Dall’inizio del conflitto in Ucraina, dalla Diocesi di Faenza-Modigliana sono state accolte in tutto circa 140 persone. Hanno trovato ospitalità in strutture diocesane, presso alcune parrocchie e in case di privati che si sono resi disponibili. Dalla Caritas diocesana sono state accolte all’inizio 49 persone. Attualmente i profughi ancora accolti sono dieci alla casa Padre Daniele alla Bersana. A tre anni dall’inizio del conflitto, facciamo il punto con il direttore Caritas, don Emanuele Casadio.
Don Emanuele, come riassumere i progetti d’accoglienza targati Caritas?
I progetti si sono focalizzati sull’accoglienza, l’ascolto, la relazione, l’accompagnamento e il fare rete, promuovendo l’integrazione delle persone accolte, grazie a progetti promossi anche a livello nazionale da Caritas. Si è puntato sul fare rete attorno ai nuclei: per esempio, inserire appena possibile i figli a scuola, aiutare a ottenere un permesso di soggiorno, orientarli per l’assegnazione di un medico di base, verso le scuole di italiano presenti e verso le possibilità lavorative del territorio, grazie soprattutto all’aiuto dei nostri volontari.
Quante persone sono ritornate in Ucraina?
Rispetto a quelle accolte dalla Caritas diocesana, a rientrare è stato un solo nucleo di tre persone (madre e due figlie), mentre una quarta persona si è appoggiata a Faenza solo il tempo necessario a riprendere le lezioni universitarie in Ucraina, dove è tutt’ora. Quindi ad aver deciso di restare sono 45 persone, di cui 35 hanno ormai trovato una sistemazione in autonomia sul territorio, comprando o in affitto (solo un nucleo ha deciso di trasferirsi in Lettonia).
Quali sono state, in questi anni, le sfide più difficili?
Trovarsi di fronte a un’emergenza come quella del conflitto ucraino-russo ha sconvolto tutti e ha comportato un’attivazione in tempi brevissimi, per accogliere “da un giorno all’altro” i profughi e affrontare questa sfida con la maggior lucidità possibile. In una prima fase c’era la speranza di poter tornare presto a casa, motivo per cui all’inizio si è cercato di offrire la propria vicinanza e beni di prima necessità. Con il passare del tempo è stato chiaro a tutti che si sarebbe trattata di un’accoglienza a lungo termine e ci siamo mobilitati per promuovere con maggior impegno l’integrazione sul territorio. Come ulteriore sfida, non possiamo non menzionare la barriera linguistica; ci siamo mobilitati nella ricerca di volontari che potessero aiutarci come mediatori linguistici o traduttori.
Quali invece le soddisfazioni?
Vedere i frutti del nostro impegno e di quello delle famiglie che, alla fine, hanno in maggioranza trovato una loro casa dove poter tornare ad avere una vita normale. Abbiamo avuto anche il piacere di assistere alla nascita di una delle bambine e potuto partecipare alla costruzione di una vita il più possibile dignitosa per lei e per la sua famiglia, anche se lontano da casa. Infine, molte persone si sono messe a disposizione per aiutare i profughi, dandoci prova di quanto la nostra comunità si sia dimostrata pronta ad attivarsi.
Quali sono le buone pratiche messe in campo?
Il lavoro di rete, l’accompagnamento degli ospiti e l’impegno messo dai nostri volontari sono senz’altro le migliori buone pratiche che possiamo testimoniare, lo dimostrano i numeri riportati inizialmente. Le realtà con cui ci siamo messi in rete sono state alcune parrocchie, le quali hanno messo a disposizione alloggi ed accompagnato alcune famiglie. Dobbiamo ringraziare profondamente la Diocesi, che ha offerto nell’immediato la Casa Padre Daniele, e anche le suore di Santa Chiara, che hanno messo a disposizione il convento. Non possiamo scordarci dei tanti volontari che si sono resi disponibili per il trasporto scolastico dei bambini, la fornitura della spesa e altre azioni utili; i gruppi scout che hanno coinvolto i nuclei in diversi momenti ricreativi e di socializzazione; le tante realtà che hanno organizzato raccolte fondi. Infine, ringraziamo anche la rete delle chiese ortodosse e greco cattoliche che ha da subito aiutato ad inserirsi al meglio le famiglie ucraine.
A livello lavorativo, le persone sono riuscite a inserirsi?
Da subito a livello lavorativo gli adulti ucraini hanno trovato lavoro, in particolare da Amadori, nell’incubatoio di Imola, in alcune aziende agricole del territorio di Faenza oppure, soprattutto le donne, nello svolgere pulizie, in regola. Altre ancora hanno trovato lavoro come estetiste, portando avanti il lavoro che svolgevano in Ucraina, mentre molti uomini hanno trovato un’occupazione anche presso l’azienda Ferretti di Forlì.
Cosa accadrà in futuro?
L’accoglienza delle famiglie ucraine sta terminando: dei tre nuclei ancora accolti presso la Bersana una ha già comprato casa e presto si trasferirà. Stiamo invece cercando di sostenere i due nuclei restanti nella ricerca di un’abitazione propria, nonostante le profonde difficoltà presenti nel nostro territorio a livello abitativo.
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